Secondi giorni ad Haiti
“Lakay Mwen” in creolo significa casa mia, ed è il nome che Maurizio ha dato alla sua Missione. Il nome è bello perché quando lo leggi o lo pronunci ne sei già parte. Maurizio è qui da 15 anni, sposato con una Haitiana e padre di una bellissima bambina “grimel” (così chiamano quelli con la pelle un po’ più chiara). Qui a Lakay Mwen il terremoto sembra non essere passato. Adesso, perché mesi fa quando sono arrivato, qui vi erano più ferro e mattoni sparsi in terra a creare composizioni di un artista matto, che quelli ancora allineati a comporre i muri. Qui a Lakay Mwen ci sono 21 anziani che Maurizio ospita da anni e ai quali ha costruito e poi ricostruito delle ampie stanze adiacenti alla sua. A Lakay Mwen ci sono le due scuole, una a ridosso della casa, l’altra a dieci minuti di strada, se così si può chiamare. E ci sono i 1400 bambini che si danno il cambio tra mattino e pomeriggio per affollare le aule. E a tutti Maurizio riesce a garantire lo studio completamente gratuito. Compreso il pranzo e le uniformi. A Lakay Mwen ci sono tre famiglie con bambini che vivono tutti insieme, insieme a Maurizio, che animano il cortile, dove giocano, lavano i panni, si pettinano, e spingono in continuazione la pompa dell’acqua che puntualmente con il suo rumore metallico mi da la sveglia al mattino presto insieme ai numerosi galli che popolano il cortile. A Lakay Mwen c’è la guardia armata giorno e notte, con il suo fucile a pompa sempre a tracolla e la sua divisa azzurra. Non può non esserci purtroppo. Ma anche lui è parte della casa ormai, fa sorridere vederlo spingere la pompa dell’acqua per aiutare a lavare i panni o alzare la tanica della benzina per fare il pieno al camioncino, sempre senza abbandonare l’arma ovviamente. A Lakay Mwen vive anche Juan. Juan lo ha trovato Maurizio mezzo morente nel cortile dell’ospedale generale. Lo ha portato a casa. Ha mangiato per giorni e giorni senza smettere, e poi si è ripreso. Juan è un mistero. Non si sa da dove viene ne la sua storia. E’ di mezza età, un grosso dente centrale che sbuca quando abbozza il suo sorriso, mani grosse e fisico da lavoratore pesante. E’ autistico, parla poco, e quando parla dice cose che solo lui capisce. Ogni tanto parla in spagnolo, e chissà quale vita dura gli ha riservato Santo Domingo per ridurlo nelle condizioni in cui lo ha trovato Maurizio. Si siede sempre dietro di te, e ovunque vai viene anche lui, come un ombra gentile. Alle 11 e alle cinque del pomeriggio disfa meticolosamente la sua borsa della spesa con dentro i suoi vestiti per ripiegarli. Ogni tanto sparisce, per più giorni, forse lo fanno lavorare, forse lo picchiano e gli rubano i soldi che tiene pinzati con una graffetta nella sua tasca destra. Ma sempre ritorna e si siede li, un passo dietro di te. Juan è una benedizione della casa, così lo definisce Maurizio. A Lakay Mwen la vita scorre.
Ho fatto l’errore di uscire da Lakay Mwen in questi giorni. Sono andato a trovare Elien e gli amici conosciuti nelle missioni precedenti che lavorano per varie ONG. Cosa è cambiato? Domanda ricorrente. Qualcosa è cambiato. Un enorme hotel largo almeno 20 stanze e alto altrettanto si staglia in costruzione nel mezzo di Petion Ville. Qualche isolato più avanti un supermercato a tre piani “Giant Market” è venuto su dal nulla ed ha già aperto i battenti ed offre il suo prezioso contributo alla comunità di cooperanti che affollano quella zona. Un gigantesco negozio di carpenteria e materiali edili tipo Brico center splende nella zona di Tabarre. Non posso dire altrettanto delle case della gente. Il numero delle tende per la città è notevolmente diminuito. Ma i racconti che si sentono su questi campi sono i più disparati. Dicono che alla gente è stato dato denaro pur di togliersi da determinate zone, e questi una volta preso si sono montati la tenda da un’altra parte, dicono che molti hanno la casa ma preferiscono vivere in tenda perché ricevono cibo e medicine dalle organizzazioni umanitarie, dicono che molti hanno la casa ma preferiscono vivere in tenda perché è meglio della loro casa, dicono che molti hanno casa ma preferiscono vivere in tenda sperando che il governo gli dia quel fazzoletto di terrà in proprietà, dicono che i fondi internazionali sono ancora bloccati in attesa del nuovo governo che non si sa quando arriverà, dicono che le ONG non hanno fatto niente, le ONG dicono che non si può fare niente in uno stato dove il governo non esiste, dicono che la corruzione dilaga, la delinquenza aumenta, i bianchi fanno i bianchi affollando i localini nati come funghi a Petion Ville e con i fuoristrada che ingorgano il traffico della città, i neri fanno i neri chiedendo l’elemosina e non volendo fare nulla. Dicono che il più grande aiuto che potrebbero fare molte ONG è quello di lasciare il paese. Ma a quanto pare qui nessuno ha intenzione di lasciare quel fazzoletto di povertà dove è riuscito a mettere la bandiera. Io a questo giro non ho intenzione di dire nulla, quello che dovevo dire l’ho già detto a febbraio. La situazione qui è terribilmente e amaramente complicata. Troppo imperniata di interessi economici. Il colonialismo esiste ancora. L’apharteid anche, creato dai soldi. Da buon cooperante bianco di associazione umanitaria sono andato anche io a fare una serata nella via denominata jet set, dove tutti i locali servono aperitivi e cene, dove i fuoristrada parcheggiati affollano i marciapiedi su entrambi i lati, persino difficile trovare un posto. Nel bel mezzo dell’aperitivo, mentre tra bianchi di associazioni di tutto il mondo, con sigaretta in una mano e cocktail nell’altra, ti racconti progetti e attività per salvare Haiti, arrivano quattro guardie armate che scortano Duvalier, “baby Doc” l’ex presidente che è rientrato dall’esilio in Haiti da poco (dittatore Haitiano, accusato di grande corruzione, fondatore dell’armata makut che metteva a tacere chiunque non fosse a favore del presidente…). Non solo non è in prigione il caro Duvalier, e neanche se ne sta chiuso in casa, ma va in giro per aperitivi. Che paese bizzarro. Comunque meglio, non avevo voglia di stare li.
Quando esco da Lakay Mwen, Maurizio mi chiama in continuazione, per sapere se sto bene, ti hanno sequestrato mi chiede scherzando. Ho fatto l’errore di passare in moto dalla baraccopoli di Cite de Soleil alle sei e mezza di sera. Quando lo ha saputo Tombeau è sbiancato, il che è tutto detto E’ una zona considerata franca “tres Fragile” (troppo fragile,pericolosa) dice Tombeau. Non bisogna passare dopo il crepuscolo. Coprifuoco assoluto. Hanno armi e ti fermano e ti rapinano, e sparano. Tombeau cambia strada ogni giorno, bisogna fare strade sempre diverse in modo che non imparano i tuoi spostamenti, mi dice. Hanno sparato al suo amico la settimana scorsa perché non voleva dare la macchina a quelli che lo hanno fermato. Tombeau ha la faccia da duro quando guida, devi fare la faccia così quando guidi in queste zone perché loro vedono tutto, mi dice. Tombeau è molto spaventato, il che mi fa strano, perché se lo sono i bianchi è normale, ma se lo sono anche loro non è un bel segno. Comunque io non lo sapevo. E poi ero con il fidato Willick. Più che un errore è stato un orrore. Vedere quell’ammasso di baracche di lamiera arrugginita alla fioca luce prima della notte,i fuochi di montagne di rifiuti che bruciano per le strade. I canali che dalla città scendono verso il mare carichi di plastica e rifiuti di ogni tipo. E’ disumano. Potrei raccontarvi del bambinetto che poverino fa quello, della donna che poverina mangia quell’altro, usare aggettivi e situazioni toccanti ma non ho più voglia di farlo. La verità è molto semplice la povertà qui è dilagante e disumana. Punto.